Articolo 9
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Qualsiasi istituzione parla con un suo strumento particolare: la legge, l'atto amministrativo. Il sito potrebbe studiare analizzare una legge con cadenza regolare, sviscerare il dibattito su questa e monitorarne gli effetti. Soprattutto, cosa che non fa mai nessuno, simularne gli effetti della possibile applicazione nell'interazione coi soggetti che debbono applicarla. Poi potrebbe avere anche le controproposte.
La proposta di riforma per l'istituzione delle scuole di dottorato.
La Legge 133 2008 del 6 agosto 2008 (Tremonti)
Decreto Legge 112 del 25 giugno 2008 e sua conversione in legge, Legge 133 2008 del 6 agosto 2008.
Commenti sulla sezione Nomoi
Curando questa sezione mi sono reso ben presto conto di come sia praticamente impossibile, per chi come me è impegnato nel non facile (di per sé non facile, ma neanche facilitato, o stimolato, o gratificato) mestiere di ricercatore, nell'impegno quotidiano di padre e di marito, e perché no, di un pizzico di spazio personale, riuscire a tenere dietro alle novità normative che si susseguono ormai da diversi anni ad un ritmo vertiginoso, pur limitandosi a quelle di pertinenza per la ricerca.
Mi si dirà, ma come, dovresti essere contento della continua attenzione che la politica rivolge al tuo mondo della ricerca. Credo invece che non da solo accolgo con disagio sempre crescente l'annuncio della ennesima riforma: dei concorsi, dei regolamenti, dei finanziamenti, etc. etc.
In primo luogo perché prende sempre più corpo la consapevolezza di quanto effimera sia l'uguaglianza “riforma uguale miglioramento”. Ogni volta, in qualsiasi campo, dall'economia alla sanità, dalla scuola alla giustizia, se c'è un problema da risolvere la risposta della politica è sempre ed una sola: serve una riforma ! Fatto è che a distanza anche ormai di pochi mesi, quando l'evidenza della inutilità di riforme astratte alla soluzione di problemi reali emerge incontestabile, alla riforma si fa seguire una nuova riforma, una riforma correttiva, una riforma radicale o addirittura una riforma costituzionale.
Vorrei condividere alcune riflessioni sui motivi che portano tutte le riforme, proposte dai governi di destra quanto di sinistra, a naufragare miseramente. Ormai lo diciamo come se fosse normale, senza quasi accorgercene noi stessi. Le riforme le fanno i governi, tramite le leggi delega, i decreti legge, le misure di urgenza.
Ma una riforma non dovrebbe essere una attività squisitamente politica, da svolgersi negli organi deputati a legiferare, ossia nel parlamento ? Al governo non spetterebbe invece il compito di amministrare, ossia di far funzionare le leggi che ci sono ?
Temo che la questione abbia radici più profonde di quelle che certamente ognuno di noi intravede. In primo luogo molte delle misure che vengono definite “riforme” sono in realtà meri provvedimenti amministrativi. Ad esempio, non può chiamarsi riforma una semplice modifica delle regole concorsuali (cioè non dei principi) che modifica il numero dei commissari afferenti a questo o quel settore disciplinare. Come non certo una riforma la modifica della percetuale di risorse liberate all'atto del pensionamento di chi ha completato la sua carriera lavorativa nella disponibilità per nuove assunzioni. Come non può chiamarsi riforma della scuola il conteggio del numero di insegnanti o il colore del grembiule.
In questo senso mi sembra quindi che il governo attuale non sia uscito dal seminato allorché, a causa della necessità derivanti dalla crisi economica in atto, si preoccupi di tagliare, tout court, ogni tipo di spesa per far tornare i conti del bilancio dello Stato. Semmai si deve criticamente considerare l'efficacia di tali provvedimenti nell'economia complessiva dello Stato.
Altri provvedimenti, invece, appaiono genuinamente impropri alla azione amministrativa, come ad esempio quella di dare facoltà alle Università di trasformarsi in fondazioni. E tanto più impropri in quanto non appaiono suggeriti dalla semplice necessità di far quadrare i conti, essendo stabilito che tali fondazioni continuerebbero a percepire l'aliquota di fondo per il funzionamento già garantita alla originaria Università. Tale riforma, come varie altre emanate dagli ultimi governi, nasce senza il necessario confronto parlamentare o con la società civile, senza che sia stato possibile preparare quello strato di consapevolezza, di confronto di opinioni, di conoscenza e di accettazione, di cui anche la migliore riforma avrebbe comunque bisogno se si vuole sperare in una sua positiva attuazione.
E tale modus operandi insinua il dubbio che l'obiettivo reale non sia quello di una regolamentazione della spesa pubblica in termini di efficienza, che infatti è ancora una volta sostanzialmente eluso dai provvedimenti proposti, ma il tentativo di modificare il sistema della ricerca per la via più breve ed incontrollabile. Ad esempio modificare le regole del reclutamento senza modificare i concorsi (se non minimamente e per renderli ancora più farraginosi sollevando così ulteriormente i commissari da una loro diretta responsabilità ex post sui risultati della selezione), per eludere le difficoltà di una riforma costituzionale. Paradossalmente è più semplice modificare il datore di lavoro, in fondazione appunto, che si trova quindi nella possibilità di agire rispetto al reclutamento in un regime giuridico completamente diverso. Tanto per fare un esempio.
Resta l'interrogativo di fondo: perché il governo non amministra e il parlamento non riforma, mentre i “politici” permeano sempre più tutta la macchina amministrativa dello Stato rendendola completamente inefficiente ? Si potrebbe provare ad approfondire le ragioni storiche che rendono oggi gli spazi della politica, quella vera dei grandi ideali, sempre più limitati, ma non è questa la sede opportuna.
E' necessario invece domandarsi: come è possibile eliminare il cortocircuito che si è creato tra amministrazione e politica ? E rendere meno corto il circuito che deciderà della prossima riforma dell'assetto dell'Università e della ricerca in Italia ?
Franco Marra