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Curando questa sezione mi sono reso ben presto conto di come sia praticamente impossibile, per chi come me è impegnato nel non facile (di per sé non facile, ma neanche facilitato, o stimolato, o gratificato) mestiere di ricercatore, nell'impegno quotidiano di padre e di marito, e perché no, di un pizzico di spazio personale, riuscire a tenere dietro alle novità normative che si susseguono ormai da diversi anni ad un ritmo vertiginoso, pur limitandosi a quelle di pertinenza per la ricerca.

Mi si dirà, ma come, dovresti essere contento della continua attenzione che la politica rivolge al tuo mondo della ricerca. Credo invece che non da solo accolgo con disagio sempre crescente l'annuncio della ennesima riforma: dei concorsi, dei regolamenti, dei finanziamenti, etc. etc.

In primo luogo perché prende sempre più corpo la consapevolezza di quanto effimera sia l'uguaglianza “riforma uguale miglioramento”. Ogni volta, in qualsiasi campo, dall'economia alla sanità, dalla scuola alla giustizia, se c'è un problema da risolvere la risposta della politica è sempre ed una sola: serve una riforma ! Fatto è che a distanza anche ormai di pochi mesi, quando l'evidenza della inutilità di riforme astratte alla soluzione di problemi reali emerge incontestabile, alla riforma si fa seguire una nuova riforma, una riforma correttiva, una riforma radicale o addirittura una riforma costituzionale.

Vorrei condividere alcune riflessioni sui motivi che portano tutte le riforme, proposte dai governi di destra quanto di sinistra, a naufragare miseramente. Ormai lo diciamo come se fosse normale, senza quasi accorgercene noi stessi. Le riforme le fanno i governi, tramite le leggi delega, i decreti legge, le misure di urgenza.
Ma una riforma non dovrebbe essere una attività squisitamente politica, da svolgersi negli organi deputati a legiferare, ossia nel parlamento ? Al governo non spetterebbe invece il compito di amministrare, ossia di far funzionare le leggi che ci sono ?

Temo che la questione abbia radici più profonde di quelle che certamente ognuno di noi intravede. In primo luogo molte delle misure che vengono definite “riforme” sono in realtà meri provvedimenti amministrativi. Ad esempio, non può chiamarsi riforma una semplice modifica delle regole concorsuali (cioè non dei principi) che modifica il numero dei commissari afferenti a questo o quel settore disciplinare. Come non certo una riforma la modifica della percetuale di risorse liberate all'atto del pensionamento di chi ha completato la sua carriera lavorativa nella disponibilità per nuove assunzioni. Come non può chiamarsi riforma della scuola il conteggio del numero di insegnanti o il colore del grembiule.
In questo senso mi sembra quindi che il governo attuale non sia uscito dal seminato allorché, a causa della necessità derivanti dalla crisi economica in atto, si preoccupi di tagliare, tout court, ogni tipo di spesa per far tornare i conti del bilancio dello Stato. Semmai si deve criticamente considerare l'efficacia di tali provvedimenti nell'economia complessiva dello Stato.

Altri provvedimenti, invece, appaiono genuinamente impropri alla azione amministrativa, come ad esempio quella di dare facoltà alle Università di trasformarsi in fondazioni. E tanto più impropri in quanto non appaiono suggeriti dalla semplice necessità di far quadrare i conti, essendo stabilito che tali fondazioni continuerebbero a percepire l'aliquota di fondo per il funzionamento già garantita alla originaria Università. Tale riforma, come varie altre emanate dagli ultimi governi, nasce senza il necessario confronto parlamentare o con la società civile, senza che sia stato possibile preparare quello strato di consapevolezza, di confronto di opinioni, di conoscenza e di accettazione, di cui anche la migliore riforma avrebbe comunque bisogno se si vuole sperare in una sua positiva attuazione.

E tale modus operandi insinua il dubbio che l'obiettivo reale non sia quello di una regolamentazione della spesa pubblica in termini di efficienza, che infatti è ancora una volta sostanzialmente eluso dai provvedimenti proposti, ma il tentativo di modificare il sistema della ricerca per la via più breve ed incontrollabile. Ad esempio modificare le regole del reclutamento senza modificare i concorsi (se non minimamente e per renderli ancora più farraginosi sollevando così ulteriormente i commissari da una loro diretta responsabilità ex post sui risultati della selezione), per eludere le difficoltà di una riforma costituzionale. Paradossalmente è più semplice modificare il datore di lavoro, in fondazione appunto, che si trova quindi nella possibilità di agire rispetto al reclutamento in un regime giuridico completamente diverso. Tanto per fare un esempio.

Resta l'interrogativo di fondo: perché il governo non amministra e il parlamento non riforma, mentre i “politici” permeano sempre più tutta la macchina amministrativa dello Stato rendendola completamente inefficiente ? Si potrebbe provare ad approfondire le ragioni storiche che rendono oggi gli spazi della politica, quella vera dei grandi ideali, sempre più limitati, ma non è questa la sede opportuna.

E' necessario invece domandarsi: come è possibile eliminare il cortocircuito che si è creato tra amministrazione e politica ? E rendere meno corto il circuito che deciderà della prossima riforma dell'assetto dell'Università e della ricerca in Italia ?

Franco Marra

Franco,

le riflessioni che hai fatto sulla differenza tra beni materiali (merci) e beni immateriali (idee) nella pagina di Crisis sono molto interessanti e opportune. In effetti l'economia basata sulla conoscenza introduce nuove dinamiche e meccanismi. Da un po' di tempo assistiamo alla trasformazione della nostra economia che passa da economia dei beni materiali ad economia di beni ad elevato valore aggiunto, cioè valore che deriva dall'applicazione di conoscenze innovative. In questo tipo di economia la ricerca e chi fa ricerca diventano strategici, cosi' come diventa strategico avere attori che sanno usare le evidenze fornite dalla ricerca e policy makers che credano nell'importanza della ricerca. Il passaggio però - come tutti i passaggi e trasformazioni - significa che per un certo periodo convivono pratiche e modi di pensare vecchi, e il passaggio è tanto più lento quanto i meccanismi della mobilità sociale sono bloccati. Così oggi si cerca ancora di trattare le idee come fossero beni materiali. Non sono esperta del campo e quindi mi fermo. So che Cristiano Antonelli scrive cose interessanti a proposito. Quello che voglio dire qui è che quanto hai scritto ha delle connessioni con quanto ho scritto nell'introduzione a questa pagina dedicata all'apprendimento permanente, in particolare quando pongo la questione della conoscenza che si cerca di trasmettere nel sistema della formazione professionale e propongo di riflettere sul fatto che questa conoscenza dovrebbe essere molto più dinamica di quanto sembra apparire, più vicina a quanto avviene nei luoghi di produzione. Nello stesso tempo però la conoscenza che si vuole sviluppare (non mi piace il termine "trasmettere" per le sue implicazioni teoriche) attraverso la formazione dovrebbe essere alimenta dalla ricerca. Chi fa formazione dovrebbe anche fare ricerca e/o saper usare i risultati delle ricerche.
A proposito di ricerca nel settore educativo, un articolo di Levin (2004) ricorda che l'OECD ha segnalato che meno dell'1% degli investimenti nell'istruzione è dedicato alla ricerca, mentre nel settore sanitario la percentuale di denaro destinato alla ricerca è ben maggiore. Willinsky (2000), citato da Levin, ha invece calcolato che negli Stati Uniti nonostante il personale nelle scuole superiori sia maggiore della forza lavoro impiegata nei settori dell'acciaio, automobilistico e tessile, gli investimenti in ricerca sono molto maggiori in questi ultimi che non nel settore dell'educazione.
Per concludere, questo post-it è solo per ribadire il legame tra economia della conoscenza, tipi di beni che si producono in essa, necessità di lifelong learning e necessità di ricerca non solo per creare nuovi prodotti ad elevato valore aggiunto ma anche per capire cosa significa fare lifelong learning in una società ed economia della conoscenza. La prossima volta magari ci interrogheremo invece su quanto davvero la società della conoscenza sia solo fatta di eccellenza, high tech, elevati skills, conoscenza sofisticata.

Appare difficile porre in evidenza che, accanto alle emergenze “politiche”, la ricerca vive oggi emergenze molto più drammatiche e concrete.

Oggi, nel mondo lavorativo della ricerca molti sono ancora lontani dal conquistare un reale diritto di sciopero, inteso soprattutto come capacità di avere un qualche peso nella rivendicazione dei propri diritti proporzionale al contributo lavorativo che si offre: per molti dei lavoratori della ricerca, in mancanza di una forma contrattuale adeguata, tale peso è quasi del tutto nullo. Figuriamoci a porci il problema di veder sospeso o diminuito il diritto di sciopero. Al paventare emergenze più o meno reali, si contrappone in questi giorni il senso di emergenza di chi percepisce il rischio a cui è sottomessa la propria stessa sopravvivenza sociale. Un colpo da bomba “intelligente” che sembra, speriamo davvero seguendo le ultimissime vicende odierne, imperdonabile anche per chi sembrava rifiutarsi di seguirne i reali effetti finali sul monitor a distanza.

E' secondo me fondamentale osservare come le forme di protesta da parte di categorie tradizionalmente non protette da norme efficaci di rappresentanza, ad esempio di tipo sindacale, e tutela (contratti atipici o non contratti di lavoro come le prestazioni “occasionali” o le reiterate borse di studio, nel loro insieme generalmente dette precariato), riescono ad emergere solo se si coagulano intorno alla difesa di principi fondamentali, come il diritto all'istruzione, alla libera espressione e circolazione delle idee, alla conservazione della cultura e del sapere. E se in tali manifestazioni trovano la solidarietà degli altri lavoratori della ricerca, di coloro che godono di un contratto a tempo indeterminato, e ancor più se alla solidarietà degli colleghi di lavoro si associa quella di altre categorie sociali, che spesso non sono contraddistinte dall'essere lavoratori, come gli studenti, anche categorie prive dell'istituzionale diritto di sciopero possono assumere il peso corrispondente al contributo che danno alla società.

Quando ciò accade, le manifestazioni (nelle forme più varie e fantasiose, talvolta diverse dalla manifestazione di piazza) fanno sempre molto più rumore di quello provocato da una manifestazione disciplinata dal diritto di sciopero, quale che esso sia. Si potrebbe forse addirittura affermare che quasi perdono forza non appena si cerca di incanalarle come forme di protesta promosse da rappresentanze politiche o sindacali.

Tra le ragioni è facile individuarne alcune. Un leader politico, specie nel frammentato panorama italiano di posizioni politiche specifiche e personali, non può comprendere e compendiare tutte le posizioni espresse e deve necessariamente proporsi in un'ottica antagonista e singolare rispetto a chi promuove l'azione contestata nella protesta. Deve esasperare, tra le ragioni reali della protesta quelle che favoriscono le motivazioni tradizionali del proprio orientamento politico, nella speranza di convogliarvi il maggior consenso possibile. E' singolare, ad esempio, quanto accaduto nelle scorse settimane in cui i maggiori leaders della sinistra, qualche volta con la complicità anche degli organi di stampa, hanno faticosamente riconosciuto le ragioni della protesta nei tagli introdotti dalla legge 133 piuttosto che nei provvedimenti, alcuni molto meno drammatici, introdotti con la legge del ministro Gelmini. Una protesta che altrimenti sarebbe dovuta uscire dalle aule parlamentari molto prima che dalle aule universitarie e scolastiche.

E' necessario, secondo me, che patti di solidarietà sociale siano sempre biunivoci e che si basino sempre dapprima nella comune difesa dei principi fondamentali della nostra democrazia, ma non meno e con non minore urgenza, nella difesa dei diritti dei più deboli. Solo in questo modo è possibile mettere in risalto false emergenze o opportunismi di categorie che sono o già tra le più forti o non tra le più deboli.

Franco Marra

La parola «emergenza» assume, in politica, il significato che il lessico giuridico assegna allo «stato d’eccezione». È un significato sinistro, perché il significante sta ad indicare quasi sempre la sospensione di tutto quanto asserito dalle norme costituzionalmente stabilite.
In nome di un’emergenza, si stravolge un piano urbanistico; in nome dell’emergenza si stanziano o si revocano finanziamenti; in nome dell’emergenza si sospendono le garanzie costituzionali.
In sintesi: ogni emergenza prefigura una piccola o grande violazione della legge e, spesso, dello stesso diritto.
Non è un caso che l’attuale governo viva sulle emergenze: sono state introdotte o varate con decreti d’emergenza la legge finanziaria, la controriforma scolastica; ed è una vera e propria emergenza pure la situazione che vive la nostra Pubblica Amministrazione.
E alle emergenze, come è evidente, si risponde con il continuo ricorso al voto di fiducia.
L’ultima, in ordine temporale, di una teoria infinita riguarda il diritto di sciopero nelle pubbliche amministrazioni, che i ministri Sacconi e Brunetta hanno messo nel mirino.
Ma cosa sono le pubbliche amministrazioni? Sono quegli enti elencati nel 1993 dal decreto legislativo 29 (il decreto “Cassese”), recepite senza sostanziali modificazioni dalla legislazioni successive e correnti. Lo sono i Comuni, le Province, le Regioni, le unità sanitarie locali, gli istituti scolastici superiori, le Università, l’Esercito, i corpi della polizia: tutte le strutture il cui funzionamento è garantito dalla distribuzione delle risorse raccolte mediante la fiscalità generale.
È evidente quindi che modificare le normative che attualmente regolano il diritto di sciopero significa intervenire in contesti lavorativi (tipologie di lavoro e tipologie contrattuali) estremamente diversificati tra loro.
Invocando nuovamente l’emergenza, non solo il governo si prepara a ledere un diritto costituzionale ma si accinge al contempo ad intervenire ignorando la complessità del corpo delle pubbliche amministrazioni. Lo scopo di questo approccio grossolano è soltanto uno: rendere impossibile l’espressione del dissenso sociale e politico.
La proposta avanzata dal ministro Sacconi ha come obiettivo immediato la trasformazione della figura del dipendente pubblico in cittadino di serie B, totalmente subordinato al “potere” politico delle amministrazioni.
E, in prospettiva, la conseguenza di un tale disegno di ristrutturazione potrebbe essere la separazione dei lavoratori del pubblico impiego dal restante fronte del lavoro dipendente, all’interno di uno Stato sempre più simile ad un regime monarchico.
Il referendum consultivo prima di ogni sciopero, la comunicazione dell’adesione individuale ad esso, la sostituzione dell’astensione dal lavoro con un segno di protesta al braccio mentre si continuano a svolgere le mansioni ordinarie a fronte della trattenuta del salario, sono misure tese a isolare definitivamente i lavoratori pubblici dal resto dei lavoratori e dei cittadini.
Da questo punto di vista non è improprio parlare di vera e propria «militarizzazione» della pubblica amministrazione. E ciò è ancor più paradossale in una situazione in cui, per molti lavoratori pubblici, il contratto di lavoro è stato trasformato, negli ultimi vent’anni, in contratto di lavoro privato, e cioè da stipularsi mediante i livelli e gli strumenti di contrattazione tipici del lavoro privato.
Se le misure sin qui adottate nei confronti dei dipendenti pubblici (decurtazione del salario anche in caso di malattia accertata, obbligo della visita fiscale, etc.) risultano tanto odiose quanto poco efficaci per migliorare il funzionamento delle pubbliche amministrazioni, il disegno di legge annunciato da Sacconi si presenta come un ulteriore salto di qualità nel progetto di limitare le libertà democratiche fondamentali.
Considerato che lo Stato, in tutte le sue articolazioni, è il più grande datore di lavoro del Paese, e che attraverso i contratti dei lavoratori del pubblico impiego condiziona e indirizza l’intero mercato del lavoro, se dovessero trovare cittadinanza i contenuti dell’annunciato disegno di legge non peggiorerebbero soltanto le condizioni dei pubblici dipendenti ma si anticiperebbe un’ulteriore riduzione delle libertà democratiche per tutti e, conseguentemente, della condizione di vita di ampi strati della popolazione.
La nostra sensazione è che non vi sia sufficiente consapevolezza della gravità della situazione né tra i lavoratori delle pubbliche amministrazioni né nelle organizzazioni sindacali, le quali tendono ad affrontare i contenuti del decreto legge con un’attenzione purtroppo ordinaria.
Ci auguriamo che nei prossimi giorni l’attacco al diritto di sciopero nelle pubbliche amministrazioni da questione di categoria diventi una questione nazionale capace di mobilitare l’intero mondo del lavoro. L’obiettivo non può che essere, a breve, l’indizione di uno sciopero generale contro le politiche del governo Berlusconi.

Simone Oggionni
direzione nazionale Prc

l'articolo 16 del decreto 112 infaustamente diventato legge è drammatico non solo per le migliaia di motivi che i costituzionalisti, i docenti, gli studenti si stanno affannando a spiegare al paese ma anche perché vedrà i più importanti beni culturali del paese passare in mano private senza alcuna certezza del loro uso futuro.

Palazzi storici, biblioteche dove sono conservate opere uniche al mondo, collezioni di quadri, di oggetti, dal demanio dello stato passeranno di proprietà alle fondazioni controllate da privati.
E, ammesso e non concesso che non trovino la strada di qualche asta internazionale o la porta di qualche palazzo divenuto di proprietà, chi garantirà ancora la gratuità della frequenza delle biblioteche, un tempo pubbliche?
Sono prospettive da brivido
FM

vi segnalo una interessante intervista ad uno dei tanti cervelli sfuggiti al patrimonio italiano
Intervista di Elena Tebano a Michela Marzano.

Ciao,
Franco

Le ragioni della fuga by francesco_sm64francesco_sm64, 27 Oct 2008 21:19

Vorrei segnalare a tutti gli interessati questo Forum su Dottorato di Ricerca e insegnamento nella Scuola: http://scuoladottorato.forumattivo.com

Questo forum intende occuparsi delle problematiche e delle normative relative ai docenti di scuola che seguono un percorso di dottorato di ricerca o post-dottorato, e della valorizzazione di tali esperienze nell'insegnamento a scuola.

In particolare, segnalo il documento che raccoglie tutti i temi più "caldi" in questo settore: http://digilander.libero.it/marcofranceschin/DOCUMENTO2008_ForumDdRS.pdf

Il documento è stato inviato al neo-ministro subito dopo il suo insediamento.

Spero di ricevere nuovi commenti e suggerimenti da parte degli utenti di RES e anche sul Forum citato.

Cari saluti, Marco Franceschin.

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Ho letto con interesse il lungo pezzo di Franco Marra:
due osservazioni.

1 - Non capisco perché sia stato inserito in questa sezione. Mi sarebbe sembrato più pertinente, cioè più visibile e commentabile, nell'ampia sezione gli spazi della ricerca.

2 - Nel merito: non sono riuscita a individuare la tesi che dovrebbe concludere la riflessione.
Può essere individuata nel fatto che la conoscenza deve avere circolazione, almeno all'interno della comunità che le produce?

Franca Moroni

NON CAPISCO LA TESI by Franca MoroniFranca Moroni, 16 Oct 2008 08:13

heading level 1

1 - La crisi economica mondiale pone ai non economisti qualche domanda.

Giovanni Sartori oggi sul Corriere sintetizzava ciò che molti di noi si chiedono:
perché gli economisti non hanno previsto la crisi dei mercati finanziari e la contemporanea e/o conseguente crisi dell'economia reale che le si sta sovrapponendo?

Per dirla con le parole di RES che ruolo ha svolto la ricerca economica in questi anni?
Gli strumenti concettuali e tecnici non sono stati sufficienti per compiere previsioni? In una parola: i modelli di previsione non hanno funzionato?

2 - Ma viene subito un'altra domanda: sono i modelli e i ricercatori che non hanno funzionato o è l'informazione che tra risultati differenti e modelli differenti ha sapientemente occultato i risultati "disfattisti"?

Mi è capitato di leggere qualche mese fa, un'opera piuttosto sintetica del Prof. Guido Rossi che anticipava molte delle cose che sono successe e stanno succedendo:

Rossi, Guido - Il mercato d'azzardo / Guido Rossi - Milano - 2008

Guido Rossi per i ruoli che ha ricoperto non è certo persona sconosciuta.

Ma ultimamente mi è parso non molto ascoltata.
Vogliamo parlarne?

FM

Discorsopronunciato da da Piero Calamandrci al III Congrsso dell'Associazione a Difesa della Scuola Nazionale
Roma 1' 11ftbbraio 1950.

Facciamol'

ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante,
il quale però formalmente vuole rispettare la costituzione, non la vuole violare in sostanza.
Non vuoI fare la marcia su Roma e trasformare l'aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuoI istituire, senza
parere, una larvata dittatura.
Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di stato hanno il difetto di
essere imparziali.
C'è una certa resistenza; in quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora, il partito dominante segue un'altra strada (è tutta un'ipotesi teorica, intendiamoci).
Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle.
Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei
premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private.
A "quelle" scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa
una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di stato in scuole di partito,
manda in malora le scuole di stato per dare la prevalenza alle sue scuole private. Attenzione, amici, in questo
convegno questo è il punto che bisogna discutere. Attenzione, questa è la ricetta.
Bisogna tener d'occhio i cuochi di questa bassa cucina. L'operazione si fa in tre modi: ve l'ho già detto: rovinare le scuole
di stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non
controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. Dare alle
scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico.

Pubblicato nella rivista Scuola democratica, 20 marzo 1950.

L'IPOTESI DI CALAMANDREI by Franca MoroniFranca Moroni, 15 Oct 2008 22:35

Questo spazio era stato concepito per aprire un pacato confronto di idee sulla scuola Italiana, di primo e secondo grado.
Purtroppo stiamo vivndo tempi oscuri.
Credo che molte delle persone con cui, almeno personalmente, avevo immaginato di poter intrecciare un dialogo siano oggi impegnate su fronti molto più arretrati.
Oggi molti insegnanti, studenti docenti sono impegnati in una battaglia per mantenere almeno i precedenti livelli di finanziamento per l'istruzione pubblica. Finanziamenti che vedevano già la scuola e l'università italiana in posizione di retroguardia verso i paesi più avanzati.

Una legge d'urgenza che affastella provvedimenti disorganici per scuole di ogni ordine e grado, che ricorre a un altro provvedimento sulla sanità per tagliare le scuole primarie nelle zone geografiamente più disagiate del paese.

Una legge che anziché affrontare il necesario iter parlamentare è stata approvata con vocto di fiducia esautorando perfino il parlamento delle sue prerogative.

Auspico che RES, almeno simbolicamente, possa supplire a quel dibattito che in parlamento è mancato facendo la democraia italiana, già così provata, un po' più debole.

Ma siccome è proposito di questo sito cercare di capire vorrei rivolgere a chi legge una domanda: è noto da inchiste OCSE che l'Italia non si clssifica bene nei pur generici test sulla qualità della formazione scolastica.

Nel quadro poco lusinghiero della preparazione dei nostri studenti c'era un segmento dell'istruzione che occupava un buon piazzamento nella graduatori OCSE: e questa era la scuola elementare.

Perché si è deciso di distuggere proprio l'unico segmento che funzionava? L'unico segmento che teneva l'Italia in alto nelle classifiche internazionali?

Se a pensar male si fa peccato ma a volte ci si prende verrebbe da dire che, forse, per dare il colpo di grazia all' istruzione pubblica italiana occorreva proprio distruggere quello che funzionava.

Troppa malizia: può essere.

Desidero però esprimere in questi giorni la mia personale solidarietà, che ovviamente impegna me sola, agli insegnanti e ai genitori che con enorme sforzo stanno protestando contro una riforma che sta affossando il segmento di maggior qualità della scuola italiana.

Franca Moroni

Vorrei introdurre il tema del ruolo della ricerca nella struttura economica della società della conoscenza. Mi sembra che sia un tema che non ha ancora un suo posto nel sito.
Per farlo, il modo migliore mi sembra quello di iniziare con le parole di George Bernard Shaw:

«Se tu hai una mela, e io ho una mela, e ce le scambiamo, allora tu ed io abbiamo sempre una mela per uno. Ma se tu hai un'idea, ed io ho un'idea, e ce le scambiamo, allora abbiamo entrambi due idee.»

Questo celebre aforisma sintetizza molto efficacemente uno degli cambiamenti più profondi introdotti dalla società della conoscenza. Leggiamolo parola per parola (quasi !) per coglierne tutta la portata.
Dapprima si parla di mela, ossia di un bene materiale. Dal punto di vista dell'economia, a tali beni si associano i principi di rivalità ed escludibilità. Sono beni rivali in quanto se io mangio la mela quella mela non può più mangiarla un altro. Sono beni escludibili in quanto è relativamente semplice impedirne l'uso da parte di particolari soggetti, ad esempio monopolizzandolo. Oppure facendo in modo che lo scambio non sia alla pari: chi trova il modo di produrre una mela ad un costo più basso alza il suo margine di profitto e contemporaneamente abbassa il margine di profitto degli altri escludendoli dal mercato. L'altro dovrà quindi venire a conoscenza di un modo per produrre mele ad un costo più basso se vuole mantenere la sua competitività sul mercato.
Questo è il modo più comune oggi di considerare il vantaggio generato dalla conoscenza: utilizzare nuova conoscenza per competere sul mercato dei beni tradizionali. E sembra essere il modello ancora preferito dalla classe imprenditoriale italiana.
Tuttavia tale modello è già superato, come risulta evidente considerando le imprese di maggior profitto recentemente affermatesi sul mercato, come Google. Infatti la stessa conoscenza è un bene, che può essere considerato, se si vuole, alla stessa stregua dei beni materiali. Seguendo questo modello sono state introdotte leggi e regolamentazioni come il diritto di autore, il brevetto, il copyright che servono proprio a tutelare economicamente la proprietà intellettuale delle idee, ossia ad introdurre i meccanismi di rivalità ed escludibilità che determinano il valore di mercato del bene immateriale.
Fatto sta però che le idee di per se possono essere scambiate senza che ne diminuisca il loro valore. I limiti materiali allo scambio delle idee, che in passato costituivano il valore economico per molte imprese, come gli editori, che fornivano, tramite ad esempio la stampa, il veicolo di scambio per le idee, sono quasi del tutto annullati, almeno in buona parte del mondo occidentale, dalle nuove tecnologie dell'informazione, probabilmente internet su tutte. Non comprendere le occasioni di sviluppo determinate dal fatto che lo scambio di idee e di conoscenza arricchisce entrambi gli attori dello scambio, talvolta anche se invece dello scambio parliamo semplicemente di una cessione unilaterale di idee, significa rinunciare alla possibilità di generare nuova ricchezza ma anche progresso e sviluppo. Le occasioni di profitto sono ora determinate dalla trasformazione che le idee esercitano sul mercato, o in altre parole dalla capacità di determinare la domanda di nuovi beni e servizi ad alto tasso di profitto, come sempre avviene quando si introduce, ad esempio, una nuova tecnologia.1
La competitività in tale dinamica economica può essere sostenuta solo se viene riconosciuto che il periodo di sfruttamento ad alto profitto di una idea è molto breve, divenendo quindi necessario di produrne sempre di nuove. E di produrle all'interno di un sistema, non solo, cioè come il colpo di genio di un inventore o di uno scienziato, ma come il risultato di un processo di elaborazione di nuove idee in uno schema che ne consenta lo sviluppo, il riconoscimento, la diffusione e la utilizzazione. La pratica fondamentale che produce ricchezza si amplia cioè da quella professionale, tipica dei mestieri “nobili” della attuale società in cui ci si appropria di un certo bagaglio di conoscenze anche molto raffinate per vendere un servizio basato sull'applicazione materiale di tali conoscenze (medici, ingegneri, avvocati, manager, etc.) a quella della innovazione, in cui il mestiere rappresentativo è quello del ricercatore che scambia le proprie idee con quelle degli altri.

Per chi vuole approfondire segnalo il seguente articolo:
Stefano Quintarelli, Obiettivo leadership

Franco

Direi tuttavia che è un bene partire da una definizione "semplice" per proporne le necessarie modifiche.
Provando a scavare un po' propongo la lettura di due documenti facilmente reperibili in rete.
Uno è il Manuale Frascati del 2002 che antepone proprio una estesa definizione di cosa è Ricerca quando questa parola definisce l'ambito di applicazione di una indagine statistica.
Il secondo è il Report Finale di una indagine della Commissione Europea intitolato Evidence on the main factors inhibiting mobility and career development of researchers. Anche in questo caso è anteposta una definizione, stavolta di cosa sono i ricercatori, che forse non è meno importante della definizione di ricerca.

Franco Marra

Definizione di Ricerca by francesco_sm64francesco_sm64, 14 Oct 2008 13:03
Franca MoroniFranca Moroni 12 Oct 2008 19:12
in discussion Discussion / Per page discussions » Ricerca

Direi che questo è un esempio di quello che non si dovrebbe fare e che molti di noi fanno. Quando si deve dare una rapida definizone di una parola si ricorre a quanto si ha a portata di mano. Wikipedia, per fortuna in alcuni casi purtroppo in altri, è assolutamente a portata di mano per moltissime persone.

Ecco una definizione di ricerca che…limita enormemente la riflessione sul termine in questione.
Settorializza, usa un fraseggio perentorio.
La scommessa è scavare un po' di più e non fare come wikipedia.

FM

by Franca MoroniFranca Moroni, 12 Oct 2008 19:12
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