La parola «emergenza» assume, in politica, il significato che il lessico giuridico assegna allo «stato d’eccezione». È un significato sinistro, perché il significante sta ad indicare quasi sempre la sospensione di tutto quanto asserito dalle norme costituzionalmente stabilite.
In nome di un’emergenza, si stravolge un piano urbanistico; in nome dell’emergenza si stanziano o si revocano finanziamenti; in nome dell’emergenza si sospendono le garanzie costituzionali.
In sintesi: ogni emergenza prefigura una piccola o grande violazione della legge e, spesso, dello stesso diritto.
Non è un caso che l’attuale governo viva sulle emergenze: sono state introdotte o varate con decreti d’emergenza la legge finanziaria, la controriforma scolastica; ed è una vera e propria emergenza pure la situazione che vive la nostra Pubblica Amministrazione.
E alle emergenze, come è evidente, si risponde con il continuo ricorso al voto di fiducia.
L’ultima, in ordine temporale, di una teoria infinita riguarda il diritto di sciopero nelle pubbliche amministrazioni, che i ministri Sacconi e Brunetta hanno messo nel mirino.
Ma cosa sono le pubbliche amministrazioni? Sono quegli enti elencati nel 1993 dal decreto legislativo 29 (il decreto “Cassese”), recepite senza sostanziali modificazioni dalla legislazioni successive e correnti. Lo sono i Comuni, le Province, le Regioni, le unità sanitarie locali, gli istituti scolastici superiori, le Università, l’Esercito, i corpi della polizia: tutte le strutture il cui funzionamento è garantito dalla distribuzione delle risorse raccolte mediante la fiscalità generale.
È evidente quindi che modificare le normative che attualmente regolano il diritto di sciopero significa intervenire in contesti lavorativi (tipologie di lavoro e tipologie contrattuali) estremamente diversificati tra loro.
Invocando nuovamente l’emergenza, non solo il governo si prepara a ledere un diritto costituzionale ma si accinge al contempo ad intervenire ignorando la complessità del corpo delle pubbliche amministrazioni. Lo scopo di questo approccio grossolano è soltanto uno: rendere impossibile l’espressione del dissenso sociale e politico.
La proposta avanzata dal ministro Sacconi ha come obiettivo immediato la trasformazione della figura del dipendente pubblico in cittadino di serie B, totalmente subordinato al “potere” politico delle amministrazioni.
E, in prospettiva, la conseguenza di un tale disegno di ristrutturazione potrebbe essere la separazione dei lavoratori del pubblico impiego dal restante fronte del lavoro dipendente, all’interno di uno Stato sempre più simile ad un regime monarchico.
Il referendum consultivo prima di ogni sciopero, la comunicazione dell’adesione individuale ad esso, la sostituzione dell’astensione dal lavoro con un segno di protesta al braccio mentre si continuano a svolgere le mansioni ordinarie a fronte della trattenuta del salario, sono misure tese a isolare definitivamente i lavoratori pubblici dal resto dei lavoratori e dei cittadini.
Da questo punto di vista non è improprio parlare di vera e propria «militarizzazione» della pubblica amministrazione. E ciò è ancor più paradossale in una situazione in cui, per molti lavoratori pubblici, il contratto di lavoro è stato trasformato, negli ultimi vent’anni, in contratto di lavoro privato, e cioè da stipularsi mediante i livelli e gli strumenti di contrattazione tipici del lavoro privato.
Se le misure sin qui adottate nei confronti dei dipendenti pubblici (decurtazione del salario anche in caso di malattia accertata, obbligo della visita fiscale, etc.) risultano tanto odiose quanto poco efficaci per migliorare il funzionamento delle pubbliche amministrazioni, il disegno di legge annunciato da Sacconi si presenta come un ulteriore salto di qualità nel progetto di limitare le libertà democratiche fondamentali.
Considerato che lo Stato, in tutte le sue articolazioni, è il più grande datore di lavoro del Paese, e che attraverso i contratti dei lavoratori del pubblico impiego condiziona e indirizza l’intero mercato del lavoro, se dovessero trovare cittadinanza i contenuti dell’annunciato disegno di legge non peggiorerebbero soltanto le condizioni dei pubblici dipendenti ma si anticiperebbe un’ulteriore riduzione delle libertà democratiche per tutti e, conseguentemente, della condizione di vita di ampi strati della popolazione.
La nostra sensazione è che non vi sia sufficiente consapevolezza della gravità della situazione né tra i lavoratori delle pubbliche amministrazioni né nelle organizzazioni sindacali, le quali tendono ad affrontare i contenuti del decreto legge con un’attenzione purtroppo ordinaria.
Ci auguriamo che nei prossimi giorni l’attacco al diritto di sciopero nelle pubbliche amministrazioni da questione di categoria diventi una questione nazionale capace di mobilitare l’intero mondo del lavoro. L’obiettivo non può che essere, a breve, l’indizione di uno sciopero generale contro le politiche del governo Berlusconi.
Simone Oggionni
direzione nazionale Prc