Articolo 9
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Anche nel settore dei lavori intellettuali si assiste alla crescita del numero di contratti a tempo determinato caratterizzati da un rapporto individuale e fiduciario fra lavoratore e datore di lavoro (per lo più pubblico). Il processo di personalizzazione del contratto porta inevitabilmente all'impossibilità per i lavoratori di ripercorrere forme di protesta nate nel contesto di contratti di lavoro collettivi.
Non è un caso, per esempio, che i precari delle Università, figure per cui è difficile la definizione di uno stato giuridico a causa della contraddittorietà del quadro normativo vigente, non riescano a dare vita a forme di protesta collettiva in grado di richiamare l'attenzione non solo sulla loro condizione materiale ma anche sui problemi che riguardano complessivamente il comparto in cui operano.
Di qui l'interesse di aprire un ragionamento collettivo su cosa significhi andare oltre l'espressione dell'esasperazione individuale. Cosa significa protestare, "avere voce", in contesti professionali che si avvalgono di contratti di lavoro individuali?
I principali circoli che influenzano la formazione della pubblica opinione anche sulla regolazione del mercato del lavoro(e quindi anche di quello intellettuale) sostengono che il contratto
individuale sia lo strumento per superare l'organizzazione del lavoro per "mansioni", ritenuto arcaico, con l'obiettivo di giungere ad un reclutamento basato su meccanismi di fiducia personale, solo nelle migliori situazioni accompagnato a una valutazione ex-post dei risultati. (che in Italia fallisce regolarmente e questo dovrebbe fare riflettere).
Il contratto individuale promuove una competizione fra singoli tanto più spiccata quanto più è forte la prossimità fra essi.
L'esistenza di quello che potremmo chiamare un moderno "esercito di riserva" anche nei lavori intellettuali unito ai lunghi tempi con cui la società nel suo complesso percepisce gli effetti di molti di questi lavori, costituiscono la chiave per comprendere come siano sempre più stretti e tutti da ripensare i modi dell'organizzazione delle forme di condizionamento del decisore politico.
Può essere vista in ciò una delle cause della scarsa adesione e della scarsa credibilità delle associazioni di questi lavoratori, associazioni che, spesso, per l'esiguità numerica non riescono a proporsi altro che in forma lobbystica ricostruendo a livello associativo la conflittualità individuale e mancando quasi sempre gli obiettivi più generali di un miglioramento della qualità del lavoro e della sua utilità sociale.
Su questo tema vorremmo raccogliere e confrontare le idee di singoli e associazioni.
Il dialogo
La parola «emergenza» assume, in politica, il significato che il lessico giuridico assegna allo «stato d’eccezione». È un significato sinistro, perché il significante sta ad indicare quasi sempre la sospensione di tutto quanto asserito dalle norme costituzionalmente stabilite.
In nome di un’emergenza, si stravolge un piano urbanistico; in nome dell’emergenza si stanziano o si revocano finanziamenti; in nome dell’emergenza si sospendono le garanzie costituzionali.
In sintesi: ogni emergenza prefigura una piccola o grande violazione della legge e, spesso, dello stesso diritto.
Non è un caso che l’attuale governo viva sulle emergenze: sono state introdotte o varate con decreti d’emergenza la legge finanziaria, la controriforma scolastica; ed è una vera e propria emergenza pure la situazione che vive la nostra Pubblica Amministrazione.
E alle emergenze, come è evidente, si risponde con il continuo ricorso al voto di fiducia.
L’ultima, in ordine temporale, di una teoria infinita riguarda il diritto di sciopero nelle pubbliche amministrazioni, che i ministri Sacconi e Brunetta hanno messo nel mirino.
Ma cosa sono le pubbliche amministrazioni? Sono quegli enti elencati nel 1993 dal decreto legislativo 29 (il decreto “Cassese”), recepite senza sostanziali modificazioni dalla legislazioni successive e correnti. Lo sono i Comuni, le Province, le Regioni, le unità sanitarie locali, gli istituti scolastici superiori, le Università, l’Esercito, i corpi della polizia: tutte le strutture il cui funzionamento è garantito dalla distribuzione delle risorse raccolte mediante la fiscalità generale.
È evidente quindi che modificare le normative che attualmente regolano il diritto di sciopero significa intervenire in contesti lavorativi (tipologie di lavoro e tipologie contrattuali) estremamente diversificati tra loro.
Invocando nuovamente l’emergenza, non solo il governo si prepara a ledere un diritto costituzionale ma si accinge al contempo ad intervenire ignorando la complessità del corpo delle pubbliche amministrazioni. Lo scopo di questo approccio grossolano è soltanto uno: rendere impossibile l’espressione del dissenso sociale e politico.
La proposta avanzata dal ministro Sacconi ha come obiettivo immediato la trasformazione della figura del dipendente pubblico in cittadino di serie B, totalmente subordinato al “potere” politico delle amministrazioni.
E, in prospettiva, la conseguenza di un tale disegno di ristrutturazione potrebbe essere la separazione dei lavoratori del pubblico impiego dal restante fronte del lavoro dipendente, all’interno di uno Stato sempre più simile ad un regime monarchico.
Il referendum consultivo prima di ogni sciopero, la comunicazione dell’adesione individuale ad esso, la sostituzione dell’astensione dal lavoro con un segno di protesta al braccio mentre si continuano a svolgere le mansioni ordinarie a fronte della trattenuta del salario, sono misure tese a isolare definitivamente i lavoratori pubblici dal resto dei lavoratori e dei cittadini.
Da questo punto di vista non è improprio parlare di vera e propria «militarizzazione» della pubblica amministrazione. E ciò è ancor più paradossale in una situazione in cui, per molti lavoratori pubblici, il contratto di lavoro è stato trasformato, negli ultimi vent’anni, in contratto di lavoro privato, e cioè da stipularsi mediante i livelli e gli strumenti di contrattazione tipici del lavoro privato.
Se le misure sin qui adottate nei confronti dei dipendenti pubblici (decurtazione del salario anche in caso di malattia accertata, obbligo della visita fiscale, etc.) risultano tanto odiose quanto poco efficaci per migliorare il funzionamento delle pubbliche amministrazioni, il disegno di legge annunciato da Sacconi si presenta come un ulteriore salto di qualità nel progetto di limitare le libertà democratiche fondamentali.
Considerato che lo Stato, in tutte le sue articolazioni, è il più grande datore di lavoro del Paese, e che attraverso i contratti dei lavoratori del pubblico impiego condiziona e indirizza l’intero mercato del lavoro, se dovessero trovare cittadinanza i contenuti dell’annunciato disegno di legge non peggiorerebbero soltanto le condizioni dei pubblici dipendenti ma si anticiperebbe un’ulteriore riduzione delle libertà democratiche per tutti e, conseguentemente, della condizione di vita di ampi strati della popolazione.
La nostra sensazione è che non vi sia sufficiente consapevolezza della gravità della situazione né tra i lavoratori delle pubbliche amministrazioni né nelle organizzazioni sindacali, le quali tendono ad affrontare i contenuti del decreto legge con un’attenzione purtroppo ordinaria.
Ci auguriamo che nei prossimi giorni l’attacco al diritto di sciopero nelle pubbliche amministrazioni da questione di categoria diventi una questione nazionale capace di mobilitare l’intero mondo del lavoro. L’obiettivo non può che essere, a breve, l’indizione di uno sciopero generale contro le politiche del governo Berlusconi.
Simone Oggionni
direzione nazionale Prc
Appare difficile porre in evidenza che, accanto alle emergenze “politiche”, la ricerca vive oggi emergenze molto più drammatiche e concrete.
Oggi, nel mondo lavorativo della ricerca molti sono ancora lontani dal conquistare un reale diritto di sciopero, inteso soprattutto come capacità di avere un qualche peso nella rivendicazione dei propri diritti proporzionale al contributo lavorativo che si offre: per molti dei lavoratori della ricerca, in mancanza di una forma contrattuale adeguata, tale peso è quasi del tutto nullo. Figuriamoci a porci il problema di veder sospeso o diminuito il diritto di sciopero. Al paventare emergenze più o meno reali, si contrappone in questi giorni il senso di emergenza di chi percepisce il rischio a cui è sottomessa la propria stessa sopravvivenza sociale. Un colpo da bomba “intelligente” che sembra, speriamo davvero seguendo le ultimissime vicende odierne, imperdonabile anche per chi sembrava rifiutarsi di seguirne i reali effetti finali sul monitor a distanza.
E' secondo me fondamentale osservare come le forme di protesta da parte di categorie tradizionalmente non protette da norme efficaci di rappresentanza, ad esempio di tipo sindacale, e tutela (contratti atipici o non contratti di lavoro come le prestazioni “occasionali” o le reiterate borse di studio, nel loro insieme generalmente dette precariato), riescono ad emergere solo se si coagulano intorno alla difesa di principi fondamentali, come il diritto all'istruzione, alla libera espressione e circolazione delle idee, alla conservazione della cultura e del sapere. E se in tali manifestazioni trovano la solidarietà degli altri lavoratori della ricerca, di coloro che godono di un contratto a tempo indeterminato, e ancor più se alla solidarietà degli colleghi di lavoro si associa quella di altre categorie sociali, che spesso non sono contraddistinte dall'essere lavoratori, come gli studenti, anche categorie prive dell'istituzionale diritto di sciopero possono assumere il peso corrispondente al contributo che danno alla società.
Quando ciò accade, le manifestazioni (nelle forme più varie e fantasiose, talvolta diverse dalla manifestazione di piazza) fanno sempre molto più rumore di quello provocato da una manifestazione disciplinata dal diritto di sciopero, quale che esso sia. Si potrebbe forse addirittura affermare che quasi perdono forza non appena si cerca di incanalarle come forme di protesta promosse da rappresentanze politiche o sindacali.
Tra le ragioni è facile individuarne alcune. Un leader politico, specie nel frammentato panorama italiano di posizioni politiche specifiche e personali, non può comprendere e compendiare tutte le posizioni espresse e deve necessariamente proporsi in un'ottica antagonista e singolare rispetto a chi promuove l'azione contestata nella protesta. Deve esasperare, tra le ragioni reali della protesta quelle che favoriscono le motivazioni tradizionali del proprio orientamento politico, nella speranza di convogliarvi il maggior consenso possibile. E' singolare, ad esempio, quanto accaduto nelle scorse settimane in cui i maggiori leaders della sinistra, qualche volta con la complicità anche degli organi di stampa, hanno faticosamente riconosciuto le ragioni della protesta nei tagli introdotti dalla legge 133 piuttosto che nei provvedimenti, alcuni molto meno drammatici, introdotti con la legge del ministro Gelmini. Una protesta che altrimenti sarebbe dovuta uscire dalle aule parlamentari molto prima che dalle aule universitarie e scolastiche.
E' necessario, secondo me, che patti di solidarietà sociale siano sempre biunivoci e che si basino sempre dapprima nella comune difesa dei principi fondamentali della nostra democrazia, ma non meno e con non minore urgenza, nella difesa dei diritti dei più deboli. Solo in questo modo è possibile mettere in risalto false emergenze o opportunismi di categorie che sono o già tra le più forti o non tra le più deboli.
Franco Marra